giovedì, dicembre 18, 2014

La meritocrazia è nel DNA della tua azienda?

Un’azienda dovrebbe cercare di essere il più meritocratica possibile.
Premiare il merito è infatti una delle principali leve e motivi del successo di un’azienda.
Non credo io debba argomentare molto per motivare quanto ho scritto sopra, talmente è ovvio.
Avere dei dipendenti che credono nella propria azienda, che si “spendono” per lei e che da questo ne possano trarne “felicità” non è utopia ma un asset fondamentale, qualsiasi sia il settore del proprio business.
Fatta questa ovvia premessa, si giunge alla constatazione che l’Italia, parafrasando il famoso film dei Cohen, “non è un paese per il merito”.
Da una recente ricerca, condotta dal Forum della Meritocrazia con Great Place to Work® e con la partecipazione della mia azienda, emerge un quadro triste e purtroppo drammatico.
Per vedere tutti i dati ecco il link: http://www.forumdellameritocrazia.it/dettaglio_campagne.aspx?id=10
Dalla ricerca si evidenzia come la stragrande maggioranza dei lavoratori italiani non si ritenga essere giudicata e valutata – nel proprio lavoro – in modo meritocratico.
La gravità è che non solo è un dato sconfortante ma intacca ogni possibile tentativo di successo del nostro paese per il futuro.
Quale giovane deciderà di lavorare duramente – facendo anche sacrifici – se non si vedrà valutato in modo meritocratico?
Come possiamo ambire ad avere dei leader che guidino le nostre aziende (ed il nostro paese) se non occupano il loro ruolo per i propri meriti ma per altri motivi…?
Quale futuro può attendere un’azienda che non premia i propri dipendenti per il loro merito ma che al contrario spesso non li ascolta nemmeno?
Dello studio condotto, una cosa che mi ha stupito è la partecipazione molto contenuta delle aziende interpellate.
Il Forum, in forma totalmente gratuità, ha richiesto la partecipazione a svariante aziende per avere dei dati solidi e confrontarli con la media nazionale ed internazionale raccolti da Great Place to Work®.
Le aziende che hanno aderito sono state poche.
Il motivo?
Non c’è purtroppo un motivo ufficiale ma la mia opinione è che avessero il timore di ascoltare. Paura di ascoltare i propri dipendenti.
Non porsi nemmeno la domanda, se la propria azienda sia percepita come meritocratica, se i propri dipendenti siano felici, se i leader/guide dell’azienda siano visti come tali, è il peccato d’origine del nostro paese ed è tra i motivi della grande difficoltà che stiamo avendo ad uscire da questa crisi.
Una nota relativamente positiva: esistono eccezioni – fortunatamente – ma con le eccezioni è assai difficile superare le crisi e le difficoltà di un paese.

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martedì, novembre 18, 2014

Fare ricerca significa farsi domande

Portare cambiamenti nel settore delle ricerche di mercato è faticoso. Questi alcuni motivi:
Se ho un modello di analisi “blindiamolo” e uniformiamolo facendolo rimanere se stesso
Se ho un cliente a cui piace vedere una certa cosa in una maniera perché proporne un’altra
Se ho un cliente che non sa molto di ricerca di mercato perché complicarmi la vita
Se ho una profonda conoscenza del mio settore perché metterla in discussione

I motivi sono quasi tutti dentro a chi fa il mio mestiere, il ricercatore.
Il ricercatore che non cerca di capire e cambiare il suo modo di lavorare al fine di relazionarsi al meglio con il consumatore/utente è un paradosso. Un ricercatore per definizione dovrebbe non essere mai soddisfatto di un modello e di una soluzione. Se si arriva al punto di non domandarsi più se la domanda è posta nel modo corretto e la persona davanti è in grado di capirla, significa non fare più il ricercatore ma il mero analista.
Da un po’ di anni lavoro in questo settore e mi capita ancora di leggere domande “copia incolla” scritte identiche a 15 anni fa; e ho la terribile sensazione che siano uguali a 30 anni fa. Penso di essere semplicemente realista se non credo che le persone parlino e si relazionino nello stesso modo quando passano i decenni. Non ritengo che possa ancora esserci una formalità così rigida e da professorini quando ci si relaziona con le persone. Ci si riempie la bocca di nomi come “co-creation”, “collaboration”, processi “bottom-up”, “rendere il consumatore protagonista” ma poi lo trattiamo come un oggetto d’antiquariato.
Per esplicitare quello che intendo vi faccio un esempio: “Qual è la sua propensione ad acquistare questo prodotto se lo trovasse nei negozi che abitualmente frequenta ad un prezzo che riterrebbe giusto?”. Questa è una domanda che ho letto la prima volta oltre 15 anni fa e che ancora ieri mi è capitata sul tavolo della scrivania. Io vi sfido a farla ad un vostro amico. Vi prenderebbe per psicopatico. Di esempi di domande “pazze” ne avrei molti.
Troppo spesso si intende come innovazione solo un “prodotto di ricerca nuovo”. Ci si dimentica di cambiare i linguaggi, le metriche, le relazioni e così facendo si rimane identici a se stessi mentre il mondo cambia a doppia velocità. Basterebbe poco, basterebbe pensare le domande che si fanno e non scegliere tra le domande già esistenti, che qualcuno ha già pensato. Fare “Ricerca” deve essere questo e dovrebbe anche essere divertente grazie al fatto di scoprire qualcosa di non conosciuto. Se avete a che fare con le ricerche di mercato, come ricercatori o come clienti di istituti di ricerca, e non vi diverte mai, cercate da un’altra parte, obbligatevi ad uscire dagli schemi.
Buona ricerca a tutti!!

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venerdì, luglio 18, 2014

Fare community per fare ricerca? Non è facile ma si può

Fare ricerca con i propri consumatori è spesso un “sogno” e, quando realizzabile, si paga spesso a caro prezzo.
Soprattutto se i propri consumatori sono pochi o di nicchia oppure semplicemente perché il nostro prodotto o servizio è indirizzato a specifiche categorie. Quindi, per non sognare troppo, ci si trova a fare ricerche su chi magari lo ha solo sentito nominare o in alternativa si prendono anche i non conoscitori e lo si presenta per “fingere” di mettere tutti allo stesso livello.
Se il prodotto non esistesse e dovesse essere lanciato sarebbe la soluzione giusta ma quando un prodotto c’è, è vivo ed ha magari anche una schiera di users felici, è un peccato non coinvolgerli o spendere cifre esorbitanti per sentirne l’opinione. Il “bello” è che oggi trovare queste persone è molto più facile di un tempo.
Spesso infatti sono già vicini alla marca, alcuni si sono iscritti sul sito, oppure hanno fatto un “like” sulla pagina ufficiale di Facebook etc. e magari proprio spinti da campagne di recruiting mirate. Coinvolgerli non solo per fare gamification di comunicazione o engagement ma anche per fare ricerca di mercato è possibile.
Non è facile. Ma è fattibile e ad un prezzo piuttosto basso.
Non è facile. L’ho già scritto ma è la cosa più importante da tenere in mente, sempre! È veramente fondamentale capire che non è la stessa cosa fare ricerca di mercato attraverso strumenti social (Facebook e community di brand) e fare ricerche di mercato in modo tradizionale, sia che si utilizzi il web (Cawi) o metodi più tradizionali. Le persone negli ambiti Social si relazionano in modo differente, usano un differente linguaggio e si aspettano dalla marca una relazione diversa rispetto a quando la cercano in negozio o la vedono nei media classici.
Qualche giorno fa parlando di Social TV e ricerche di mercato stavo affrontando il “serioso” tema del live tweeting e di come questo trend in espansione, ma tuttavia ancora di nicchia in Italia, potrà cambiare pelle con l’evolversi dell’uso di altri strumenti che si stanno trasformando in canali Social e di conversazione, sto parlando ovviamente di WhatsApp. Ciò comporterà un cambiamento di linguaggio ulteriore. Prepariamoci.
Coinvolgere persone vicine al proprio brand non è quindi di per sé difficile, ma è come parlarci, come relazionarcisi la vera difficoltà e sfida.
Loro sono lì, pronti a dare la loro opinione, perché non approfittarne?

lunedì, maggio 05, 2014

Social Media Analysis e ricerche di mercato

L’errore che a volte fa chi legge i risultati di una ricerca è quello di confondere MELE con PERE.
Per questo solitamente si commissiona una ricerca ad un’azienda terza che fa questo di lavoro e che può aiutare a leggere e comprendere i dati. In un altro ambito – che è molto affine al mondo delle ricerche di mercato, tanto che molte aziende del settore ci stanno investendo – si sta facendo questo errore.
Parlo dell’ascolto della rete o anche conosciuto buzz monitoring o web monitoring.

Per chi fa ricerche di mercato – come me – non c’è cosa più preziosa di avere a disposizione, in modo totalmente spontaneo e sincero, un quantitativo enorme di conversato su un determinato prodotto o brand.
Preso atto di questo valore bisogna, in modo attento, valutare e leggere queste conversazioni. Parliamo di contenuti che hanno una valenza sia statistica (cioè numerica) sia qualitativa (cioè di contenuto).
Come valutare una conversazione? E come valutare l’insieme di migliaia di conversazioni? Si entra nel rischioso tema dell’analisi semantica (fatta da macchine!?) e della pesatura dei dati. Tralascio il primo aspetto già di per se ostico (macchine e semantica…).
Parliamo del secondo, sì, della pesatura dei dati.

E qui arriva il bello.
Se non li si pesasse, ci si troverebbe nell’errore di prendere ancora una volta Mele per Pere. Non possono essere giudicati allo stesso modo un post ed retweet; e un commento non avrà lo stesso valore di una condivisione e via così.
Se si vuole sintetizzare un volume totale di conversato si deve, necessariamente, ponderare in base alla Risonanza. È un concetto complesso e lascio al link sotto l’approfondimento.
Voglio essere però esplicito chiudendo questa puntata del blog: ascoltare la rete – senza avere i parametri per valutare efficacemente le conversazioni ed il buzz – vi farà da prima disinnamorare di questi strumenti ma soprattutto vi distoglierà dal vero obiettivo che dovrebbero avere: dare valore!
  • Dare valore in termini di conoscenza sul brand, sul target, sulle problematiche inerenti, sulle opportunità non sfruttate
  • Dare valore in termini di investimenti web su dove ed in che modo essere presenti in modalità paid
  • Dare valore in termini di reputazione, sapendo se e dove si può agire per migliorare il proprio percepito
  • Dare valore in termini di engagement al fine di individuare eventuali ambassador o opinion leader con cui relazionarsi
Dare valore a qualcosa che c’è, che ci sarà e che sarebbe un peccato non sfruttare per il proprio business.
Se volete saperne di più, seguite il link: http://www.slideshare.net/duepuntozeroresearch/drt-abstract
Alla prossima!

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